Il traghetto attraccò, con un ruggito del motore a frenare la sua corsa e i secchi scricchiolii dei pali d’ormeggio. I rumori echeggiarono brevemente nella quiete dell’alba, ovattati dalla nebbiolina che aleggiava sul lago. Il pontile si abbassò, arrestandosi con un sordo clangore. Le automobili entrarono in lenta fila e si disposero ordinatamente nella pancia della balena di metallo.
L’uomo percorse a piedi il pontile, come faceva ogni mattina per recarsi al lavoro sulla sponda opposta. Nell’aria gelida il fiato si condensava davanti al viso, oltre il fagotto della sciarpa arrotolata sul collo. Andò a sistemarsi in uno dei vani passeggeri. Seduto sul freddo seggiolino di plastica, osservava oltre i vetri il giorno che saliva.
Un placido ondeggiare chiazzava dei primi riflessi il piatto orizzonte d’acqua. Il buio della cupa distesa evaporava verso il cielo, colorando lentamente. In lontananza la luce del sole già saettava sulle cime innevate.
Il traghetto si mosse, sciogliendosi dalla presa dei possenti tiranti d’acciaio. Ogni volta la sensazione era che anche lo stomaco iniziasse a galleggiare. E la mente, ugualmente, pareva liberarsi dell’indolente inerzia dei pensieri.
”Auguri Pa’. Felice compleanno. Se ne ricorderà qualcuno? I miei genitori. Un paio degli amici di sempre. Forse un’amica di qualche tempo fa. Ma non mi telefonerà. Magari un sms. Non fanno altro che fare come fai tu. Nessuno può leggere nei tuoi pensieri reconditi e pigri. E certamente i pochi che esprimi non bastano a rivelare cosa ti porti dentro. Nel mezzo della vita sei già vecchio. Non vedi nulla davanti e ti odii se guardi indietro. Auguri Pa’.”
Nella cabina non c’era nessuno. Qualche figura scompigliata dal vento risaliva la corrente del ponte. A metà del tragitto tra gli approdi, la luce e i colori avevano conquistato la scena. Frizzavano le creste bianche dei flutti. I cubi incastonati delle case adornavano i presepi sulle rive dirimpettaie.
Abbassando lo sguardo sul pavimento notò, sotto la fila di sedute imbullonate, una busta stropicciata dall’impronta di una scarpa. Esitò un istante ma poi la raccolse. Conteneva qualcosa ed era aperta. Nessuna scritta su entrambi i lati. Pensò di cercare il personale di bordo per consegnarla, qualora qualcuno l’avesse cercata. La circostanza del ritrovamento però l’intrigava, quasi fosse un inaspettato regalo di compleanno. Forse prima poteva dare un’occhiata all’interno. Non esitò a lungo. Era un foglio piegato in quattro, che distese e lesse.
Giunto alla fine, il nome riportato nella firma rimbalzava nella sua mente al ritmo accelerato dei battiti del cuore. “Sofia”. Non conosceva nessuno che portasse quel nome, su entrambe le sponde del lago. A deliziarlo fu la semplice profondità con cui la donna esprimeva il suo sentire, limpido e scevro di retorica sentimentale. Con sguardo acuto e spietato dispiegava l’essenza dei fatti della propria vita. Inerme e arresa di fronte alle verità palesate alla coscienza e confessate al flusso nervoso d’inchiostro. A turbarlo, invece, furono le conclusioni a cui la logica del ragionamento la portava.
“Non posso più sopportare il dolore di tutto questo vuoto. Perdonatemi.”
Un movimento dell’acqua lo fece sobbalzare. L’onda spazzò via il rapimento interiore, scemando in una risacca di moti contrapposti dell’animo. Era il traghetto che giungeva all’altra riva. Doveva scendere. Non poteva consegnare a chicchessia una missiva di tale importanza. Sapeva che chiunque l’avesse scritta era intimamente geloso del suo contenuto. Temeva che non fosse considerata nella sua urgente drammaticità o addirittura che potesse diventare oggetto di dileggio. Che fare allora? Ripose lo scritto nella busta e l’infilò in tasca.
Era giorno pieno e chiassoso su quella sponda del lago. Durante l’inverno, nel suo andirivieni, poteva convenire che su una riva fosse sempre notte e sull’altra sempre giorno, come se alla coda di quel mostro meccanico fossero fissate le corde del sipario celeste. E figurò se stesso come il nocchiere al servizio degli astri.
La luce riflessa dalla volta sbiancata lampeggiava sulla superficie increspata, giocando con le ombre contorte dello stuolo di gabbiani. L’aria tornava a calmarsi vestendosi d’azzurro. Il pontile dell’imbarcadero discese gracchiando e la balena di metallo restituì docilmente tutto quello che aveva ingurgitato. Pa’ compreso.
Nel tardo pomeriggio salì sul traghetto che lo avrebbe riportato verso casa. Il rito dell’imbarco si svolse con la consueta calma, disciplinata e rassicurante. Continuava a meravigliarsi di come quelle tonnellate di tozzo ferro potessero rimanere a galla.
Durante le ore in ufficio, monotone e alienanti, aveva svolto distrattamente le proprie mansioni, assente tanto da non averne memoria. Per tutto il tempo il pensiero era corso al contenuto della lettera. L’aveva riletta più volte. Erano parole che anche il suo cuore aveva pronunciato e ora le ascoltava dalle labbra in movimento di un viso proiettato nella mente. La immaginava con sguardo distante china sul foglio, gli occhi lucidi, le dita strette sulla penna.
Vagò per i ponti, su e giù per le scalette. Indagò il salone del bar, i volti oltre i vetri nelle salette lungo le murate. Erano quasi tutti pendolari, lavoratori e studenti. La stagione turistica era ancora lontana. Qualcuno rimaneva chiuso al caldo nell’auto, commessi viaggiatori e frontalieri. Venti minuti passano in fretta.
Dallo scritto desunse che Sofia aveva intorno ai quarant’anni ed era avvezza all’ambiente del lago. Forse utilizzava con frequenza quel mezzo di trasporto, ma non ve n’era certezza, il suo poteva essere stato un transito occasionale. Inoltre i traghetti fanno la spola continuamente e la lettera poteva averla smarrita in un’ora qualunque della giornata.
Si sedette non lontano da due donne che parlavano a voce alta. Una era stufa del moroso, l’altra, dopo averlo insultato, le consigliava di mandarlo a quel paese. Sofia non avrebbe strillato. Nessuno tra i passeggeri corrispondeva all’immagine di lei che si era costruito.
Uscì all’aperto. Il cielo era una cappa d’ovatta, affumicata e immobile. I due mondi alle estremità del viaggio perdevano temporaneamente la loro fisicità. Diventavano idee, schizzi della mente, proiezioni delle sue emozioni; e su di esse poteva modellarli. La realtà rimpiccioliva fino a diventare soltanto quella zattera sospesa nel tempo. E smetteva di spaventare, era conoscibile, governabile.
La sera calava dai monti fin sulle rive, passando di casa in casa ad accendere le luci. Sulle strade, nei porti. Brillante rosario di preghiere.
Lo aveva già deciso. Non poteva rimanere inerte. Quella notte sarebbe uscito e avrebbe messo in atto il suo piano maldestro e ridicolo.
Allontanandosi dalla banchina si vedeva chiaramente. Seminascosto a riva dai tigli del lungolago, il cartellone pubblicitario campeggiava tra le panchine e i lampioni ancora accesi. Sul collage di manifesti logori, la scritta risaltava nitida. “Sofia”. A contornarla il disegno infantile di un cuore.
Pa’ sentiva l’aria sulla nuca, il freddo infilarsi nelle pieghe dei vestiti. Avvertì una stretta nel petto e si diede dell’imbecille. Era tutto lì quello che sapeva fare? Si vergognò del suo ingenuo e velleitario proposito.
Camminando lungo il ponte osservava i passeggeri. Nessuno era interessato alla sua opera. Pochi scambiavano brevi comunicazioni, quasi tutti assorti nelle loro rimuginazioni mattutine, cullati dal sottofondo dei motori e rannicchiati sui sedili.
Il sipario si alzava. Il lago era di latte. E il cielo, il suo specchio. All’orizzonte sagome di monti si sovrapponevano l’una all’altra. Verso sud la distesa si allungava e i profili si abbassavano a indicare uno sbocco per le acque tremolanti. Al largo dentro la visuale si affacciò il traghetto che navigava in direzione opposta, le bandiere tese nell’aria, spinto da una scia ribollente.
Appoggiata al corrimano della balaustra, Sofia fissava l’acqua senza vederla. Un colpo di sirena le fece alzare gli occhi. Le ripresentò il mondo inondato di luce, le vette imbiancate, la terra imbrunita, il lago solcato da una balena di metallo, un unico passeggero sul ponte a sfidare il vento.
La balena bianca s’illuminò nel momento di salpare. E per Pa’ ripartì la giostra di ogni giorno.
“Una musica d’organetto echeggia, cadenzata e malinconica. Reminiscenze. La memoria è un gioco dell’eterno presente. Il tempo esiste o è un’illusione? Gli anni. Dove sono andati? Cos’hanno lasciato? Girano in tondo i destrieri meccanici, ondeggiano, salgono e scendono, per ritrovarsi ancora e sempre lì. Cosa in questa corsa mi appartiene intimamente, cosa è inutile fardello? Ognuno corre sul suo cavallo impastoiato, senza possibilità di raggiungere alcuno.
La mia pena è non saper afferrare una verità univoca, fermarla e conservarla per farne tesoro. Una pietra da tenermi in tasca. Qualcosa che sappia dare un senso stabile a ciò che sono, a quello che sento, che vivo. A ciò che esiste.” Le asserzioni di Sofia mulinavano nei pensieri di Pa’. Visioni dentro bolle evanescenti che affioravano dal fondo del suo lago d’incertezza.
Lasciò il rigido seggiolino e perlustrò discreto la balena. Cercava un segno, un viso plausibile, un’occhiata sfuggente. Anche solo una vibrazione. Senza successo.
La massa imponente del monte dietro casa anneriva e avanzava per raccogliere il suo naufrago. I lampioni perennemente illuminati stiepidivano la piazza dell’imbarcadero che in breve arpionò il traghetto e lo trasse a sé. Pa’ si mosse per guadagnare la terraferma. Sotto pennellate di colla fresca e ormai congelata, il nuovo manifesto pubblicitario prometteva felicità.
Appena fuori dalla baia del porticciolo sfilava in senso contrario la vetrata luminosa del traghetto in partenza. La silhouette nera di Sofia riempiva uno dei riquadri, appannando un’ellisse davanti al viso. Negli occhi il buio e qualche luccichio di luci artificiali.
“Qualcuno sa del tuo cuore, Sofia. O almeno così crede. Ma cosa sa del tuo dolore, della paura, del sentirsi perduti? Del terrore che sconvolge, nascondendo ogni appiglio alla realtà? O anche soltanto ai sogni? Ci ho provato e riprovato ma ogni volta tutto crolla e si dissolve, tutto tranne il mostro dentro di me. Che cosa ne può sapere della tua lotta?”
Nella notte caduta intorno filtrava soltanto il disegno di tremule lucciole lontane. L’anima di Sofia incominciò meccanicamente a unire i puntini.
“E se quella lotta fosse anche la sua?”
Sotto la coltre di nuvole il panorama era una cartolina in bianco e nero. Il traghetto tracciava sull’acqua una linea scura che si sdoppiava, si allargava sempre più e poi svaniva. Ma Pa’ non la poteva vedere.
“Stava in cabina di pilotaggio con le mani sul timone. Nonostante il vetro, sentiva l’aria agitargli i capelli e la velocità aumentare. Un cielo limpido si rovesciò sopra di lui, trafitto d’incandescenti raggi solari. Diede potenza ai motori e il traghetto si sollevò dolcemente dall’acqua. Prese quota e volò.
Planò lungo le rive e rispose ai saluti dei passanti. Fece evoluzioni sopra le barchette dei pescatori sorridenti. Vide una minuscola isoletta, dove una donna sola stava seduta sul molo. Ammarò con manovra elegante e la prese a bordo. Fu allora che lo scafo si trasformò nell’enorme balena. Con un guizzo si tuffò in picchiata e sprofondò. Giù, giù, verso un chiarore sul fondo, che raggiunse e attraversò.
Riemerse e Pa’ capì che quello, ora, era il mare. Nocchiere della possente balena, cavalcava le morbide onde verso l’orizzonte infuocato. Voltò il viso di lato e incrociò un radioso sorriso.”
Dalla sua posizione, a prua del ponte dove spesso amava stare, girò lo sguardo verso la postazione di comando e sorrise tra sé e sé. Il sogno era ancora vivo nella sua anima.
Non riusciva a sentirlo come qualcosa d’irreale. Era dentro di lui, era un pezzo reale del suo esistere. Quel sogno era profondamente lui. Era più vero di tutto ciò che lo circondava. Era lì. Ed era adesso.
La riva diurna venne a lui come nella zoomata di un film epico.
Il porticciolo turistico era deserto. C’era soltanto un uomo in tuta blu che armeggiava all’interno del garage. Pa’ si avvicinò e gli espose la sua richiesta. L’uomo l’ascoltò perplesso ma infine si accordarono e rassegnato l’accontentò. Pa’ si diresse verso la banchina.
Quando in ufficio aveva messo la lettera di dimissioni sulla scrivania, lo avevano guardato alzando appena gli occhi sopra la montatura degli occhiali. Probabilmente dalla sua espressione si capì che era una cosa importante. La busta fu aperta e il contenuto dispiegato e letto. La reazione mal dissimulata.
“E adesso che cosa farai?”
“Adesso…? Farò il nocchiere!”
“E di che nave?!”
“Della mia balena.”
Pa’ sollevò il telo dalla prua della barca e vi salì. Lo ripiegò e liberò le cime. Lo sciabordio tra gli scafi e i canapi era un ritmo spezzato di tenui schiocchi. La ferramenta sugli alberi nudi, musica di sonagli. Il motore partì al primo colpo. Con manovra lenta e precisa, Pa’ uscì dal porto e mise la prua al largo.
Si era alzato il vento. Aveva nettato il cielo e steso un manto virgineo. La luce era sgargiante. L’acqua mossa, un fremere di bagliori saettanti. La piccola barca fendeva le onde impettita.
Quel fuscello investito dal sole e invisibile all’universo, conteneva il mondo intero per Pa’. Tutto ciò che era necessario era a bordo. Le zavorre stavano affondando nel lago.
Si sentiva leggero, libero, vivo. Si sentiva. Tutto era possibile adesso. Bastava scegliere. Poteva puntare a nord, a sud, la luna, una stella. In quel momento era Dio. Non della creazione ma di tutto ciò che gli apparteneva, se stesso. Di quello che gli era concesso conoscere ed esserne artefice. Così poco, eppure tutto. E sapendosi uomo, scelse la terra. La sua terra.
Una pioggia di luce scrosciava tutt’intorno. La linea dell’orizzonte tracciava decisa il cerchio imperfetto della semisfera celeste. Degli infiniti approdi plausibili uno solo era possibile e l’aspettava, redento, da sempre.
Avvicinandosi alla riva il tempo si fermò. Non per tutti, fu Pa’ che si dimenticò del tempo. O fu il tempo che si lasciò dimenticare. Esistevano un porto, una banchina e un cartellone pubblicitario seminascosto fra i tigli. Come spettatori soltanto il creato e la vita con i suoi imperscrutabili doni.
Pa’ sapeva che quello che ora vedeva sul cartellone era là soltanto per lui.
È quando ti dimentichi del tempo, è allora che sei felice.
Un placido ondeggiare chiazzava dei primi riflessi il piatto orizzonte d’acqua. Il buio della cupa distesa evaporava verso il cielo, colorando lentamente. In lontananza la luce del sole già saettava sulle cime innevate.
Il traghetto si mosse, sciogliendosi dalla presa dei possenti tiranti d’acciaio. Ogni volta la sensazione era che anche lo stomaco iniziasse a galleggiare. E la mente, ugualmente, pareva liberarsi dell’indolente inerzia dei pensieri.
”Auguri Pa’. Felice compleanno. Se ne ricorderà qualcuno? I miei genitori. Un paio degli amici di sempre. Forse un’amica di qualche tempo fa. Ma non mi telefonerà. Magari un sms. Non fanno altro che fare come fai tu. Nessuno può leggere nei tuoi pensieri reconditi e pigri. E certamente i pochi che esprimi non bastano a rivelare cosa ti porti dentro. Nel mezzo della vita sei già vecchio. Non vedi nulla davanti e ti odii se guardi indietro. Auguri Pa’.”
Nella cabina non c’era nessuno. Qualche figura scompigliata dal vento risaliva la corrente del ponte. A metà del tragitto tra gli approdi, la luce e i colori avevano conquistato la scena. Frizzavano le creste bianche dei flutti. I cubi incastonati delle case adornavano i presepi sulle rive dirimpettaie.
Abbassando lo sguardo sul pavimento notò, sotto la fila di sedute imbullonate, una busta stropicciata dall’impronta di una scarpa. Esitò un istante ma poi la raccolse. Conteneva qualcosa ed era aperta. Nessuna scritta su entrambi i lati. Pensò di cercare il personale di bordo per consegnarla, qualora qualcuno l’avesse cercata. La circostanza del ritrovamento però l’intrigava, quasi fosse un inaspettato regalo di compleanno. Forse prima poteva dare un’occhiata all’interno. Non esitò a lungo. Era un foglio piegato in quattro, che distese e lesse.
Giunto alla fine, il nome riportato nella firma rimbalzava nella sua mente al ritmo accelerato dei battiti del cuore. “Sofia”. Non conosceva nessuno che portasse quel nome, su entrambe le sponde del lago. A deliziarlo fu la semplice profondità con cui la donna esprimeva il suo sentire, limpido e scevro di retorica sentimentale. Con sguardo acuto e spietato dispiegava l’essenza dei fatti della propria vita. Inerme e arresa di fronte alle verità palesate alla coscienza e confessate al flusso nervoso d’inchiostro. A turbarlo, invece, furono le conclusioni a cui la logica del ragionamento la portava.
“Non posso più sopportare il dolore di tutto questo vuoto. Perdonatemi.”
Un movimento dell’acqua lo fece sobbalzare. L’onda spazzò via il rapimento interiore, scemando in una risacca di moti contrapposti dell’animo. Era il traghetto che giungeva all’altra riva. Doveva scendere. Non poteva consegnare a chicchessia una missiva di tale importanza. Sapeva che chiunque l’avesse scritta era intimamente geloso del suo contenuto. Temeva che non fosse considerata nella sua urgente drammaticità o addirittura che potesse diventare oggetto di dileggio. Che fare allora? Ripose lo scritto nella busta e l’infilò in tasca.
Era giorno pieno e chiassoso su quella sponda del lago. Durante l’inverno, nel suo andirivieni, poteva convenire che su una riva fosse sempre notte e sull’altra sempre giorno, come se alla coda di quel mostro meccanico fossero fissate le corde del sipario celeste. E figurò se stesso come il nocchiere al servizio degli astri.
La luce riflessa dalla volta sbiancata lampeggiava sulla superficie increspata, giocando con le ombre contorte dello stuolo di gabbiani. L’aria tornava a calmarsi vestendosi d’azzurro. Il pontile dell’imbarcadero discese gracchiando e la balena di metallo restituì docilmente tutto quello che aveva ingurgitato. Pa’ compreso.
Nel tardo pomeriggio salì sul traghetto che lo avrebbe riportato verso casa. Il rito dell’imbarco si svolse con la consueta calma, disciplinata e rassicurante. Continuava a meravigliarsi di come quelle tonnellate di tozzo ferro potessero rimanere a galla.
Durante le ore in ufficio, monotone e alienanti, aveva svolto distrattamente le proprie mansioni, assente tanto da non averne memoria. Per tutto il tempo il pensiero era corso al contenuto della lettera. L’aveva riletta più volte. Erano parole che anche il suo cuore aveva pronunciato e ora le ascoltava dalle labbra in movimento di un viso proiettato nella mente. La immaginava con sguardo distante china sul foglio, gli occhi lucidi, le dita strette sulla penna.
Vagò per i ponti, su e giù per le scalette. Indagò il salone del bar, i volti oltre i vetri nelle salette lungo le murate. Erano quasi tutti pendolari, lavoratori e studenti. La stagione turistica era ancora lontana. Qualcuno rimaneva chiuso al caldo nell’auto, commessi viaggiatori e frontalieri. Venti minuti passano in fretta.
Dallo scritto desunse che Sofia aveva intorno ai quarant’anni ed era avvezza all’ambiente del lago. Forse utilizzava con frequenza quel mezzo di trasporto, ma non ve n’era certezza, il suo poteva essere stato un transito occasionale. Inoltre i traghetti fanno la spola continuamente e la lettera poteva averla smarrita in un’ora qualunque della giornata.
Si sedette non lontano da due donne che parlavano a voce alta. Una era stufa del moroso, l’altra, dopo averlo insultato, le consigliava di mandarlo a quel paese. Sofia non avrebbe strillato. Nessuno tra i passeggeri corrispondeva all’immagine di lei che si era costruito.
Uscì all’aperto. Il cielo era una cappa d’ovatta, affumicata e immobile. I due mondi alle estremità del viaggio perdevano temporaneamente la loro fisicità. Diventavano idee, schizzi della mente, proiezioni delle sue emozioni; e su di esse poteva modellarli. La realtà rimpiccioliva fino a diventare soltanto quella zattera sospesa nel tempo. E smetteva di spaventare, era conoscibile, governabile.
La sera calava dai monti fin sulle rive, passando di casa in casa ad accendere le luci. Sulle strade, nei porti. Brillante rosario di preghiere.
Lo aveva già deciso. Non poteva rimanere inerte. Quella notte sarebbe uscito e avrebbe messo in atto il suo piano maldestro e ridicolo.
Allontanandosi dalla banchina si vedeva chiaramente. Seminascosto a riva dai tigli del lungolago, il cartellone pubblicitario campeggiava tra le panchine e i lampioni ancora accesi. Sul collage di manifesti logori, la scritta risaltava nitida. “Sofia”. A contornarla il disegno infantile di un cuore.
Pa’ sentiva l’aria sulla nuca, il freddo infilarsi nelle pieghe dei vestiti. Avvertì una stretta nel petto e si diede dell’imbecille. Era tutto lì quello che sapeva fare? Si vergognò del suo ingenuo e velleitario proposito.
Camminando lungo il ponte osservava i passeggeri. Nessuno era interessato alla sua opera. Pochi scambiavano brevi comunicazioni, quasi tutti assorti nelle loro rimuginazioni mattutine, cullati dal sottofondo dei motori e rannicchiati sui sedili.
Il sipario si alzava. Il lago era di latte. E il cielo, il suo specchio. All’orizzonte sagome di monti si sovrapponevano l’una all’altra. Verso sud la distesa si allungava e i profili si abbassavano a indicare uno sbocco per le acque tremolanti. Al largo dentro la visuale si affacciò il traghetto che navigava in direzione opposta, le bandiere tese nell’aria, spinto da una scia ribollente.
Appoggiata al corrimano della balaustra, Sofia fissava l’acqua senza vederla. Un colpo di sirena le fece alzare gli occhi. Le ripresentò il mondo inondato di luce, le vette imbiancate, la terra imbrunita, il lago solcato da una balena di metallo, un unico passeggero sul ponte a sfidare il vento.
La balena bianca s’illuminò nel momento di salpare. E per Pa’ ripartì la giostra di ogni giorno.
“Una musica d’organetto echeggia, cadenzata e malinconica. Reminiscenze. La memoria è un gioco dell’eterno presente. Il tempo esiste o è un’illusione? Gli anni. Dove sono andati? Cos’hanno lasciato? Girano in tondo i destrieri meccanici, ondeggiano, salgono e scendono, per ritrovarsi ancora e sempre lì. Cosa in questa corsa mi appartiene intimamente, cosa è inutile fardello? Ognuno corre sul suo cavallo impastoiato, senza possibilità di raggiungere alcuno.
La mia pena è non saper afferrare una verità univoca, fermarla e conservarla per farne tesoro. Una pietra da tenermi in tasca. Qualcosa che sappia dare un senso stabile a ciò che sono, a quello che sento, che vivo. A ciò che esiste.” Le asserzioni di Sofia mulinavano nei pensieri di Pa’. Visioni dentro bolle evanescenti che affioravano dal fondo del suo lago d’incertezza.
Lasciò il rigido seggiolino e perlustrò discreto la balena. Cercava un segno, un viso plausibile, un’occhiata sfuggente. Anche solo una vibrazione. Senza successo.
La massa imponente del monte dietro casa anneriva e avanzava per raccogliere il suo naufrago. I lampioni perennemente illuminati stiepidivano la piazza dell’imbarcadero che in breve arpionò il traghetto e lo trasse a sé. Pa’ si mosse per guadagnare la terraferma. Sotto pennellate di colla fresca e ormai congelata, il nuovo manifesto pubblicitario prometteva felicità.
Appena fuori dalla baia del porticciolo sfilava in senso contrario la vetrata luminosa del traghetto in partenza. La silhouette nera di Sofia riempiva uno dei riquadri, appannando un’ellisse davanti al viso. Negli occhi il buio e qualche luccichio di luci artificiali.
“Qualcuno sa del tuo cuore, Sofia. O almeno così crede. Ma cosa sa del tuo dolore, della paura, del sentirsi perduti? Del terrore che sconvolge, nascondendo ogni appiglio alla realtà? O anche soltanto ai sogni? Ci ho provato e riprovato ma ogni volta tutto crolla e si dissolve, tutto tranne il mostro dentro di me. Che cosa ne può sapere della tua lotta?”
Nella notte caduta intorno filtrava soltanto il disegno di tremule lucciole lontane. L’anima di Sofia incominciò meccanicamente a unire i puntini.
“E se quella lotta fosse anche la sua?”
Sotto la coltre di nuvole il panorama era una cartolina in bianco e nero. Il traghetto tracciava sull’acqua una linea scura che si sdoppiava, si allargava sempre più e poi svaniva. Ma Pa’ non la poteva vedere.
“Stava in cabina di pilotaggio con le mani sul timone. Nonostante il vetro, sentiva l’aria agitargli i capelli e la velocità aumentare. Un cielo limpido si rovesciò sopra di lui, trafitto d’incandescenti raggi solari. Diede potenza ai motori e il traghetto si sollevò dolcemente dall’acqua. Prese quota e volò.
Planò lungo le rive e rispose ai saluti dei passanti. Fece evoluzioni sopra le barchette dei pescatori sorridenti. Vide una minuscola isoletta, dove una donna sola stava seduta sul molo. Ammarò con manovra elegante e la prese a bordo. Fu allora che lo scafo si trasformò nell’enorme balena. Con un guizzo si tuffò in picchiata e sprofondò. Giù, giù, verso un chiarore sul fondo, che raggiunse e attraversò.
Riemerse e Pa’ capì che quello, ora, era il mare. Nocchiere della possente balena, cavalcava le morbide onde verso l’orizzonte infuocato. Voltò il viso di lato e incrociò un radioso sorriso.”
Dalla sua posizione, a prua del ponte dove spesso amava stare, girò lo sguardo verso la postazione di comando e sorrise tra sé e sé. Il sogno era ancora vivo nella sua anima.
Non riusciva a sentirlo come qualcosa d’irreale. Era dentro di lui, era un pezzo reale del suo esistere. Quel sogno era profondamente lui. Era più vero di tutto ciò che lo circondava. Era lì. Ed era adesso.
La riva diurna venne a lui come nella zoomata di un film epico.
Il porticciolo turistico era deserto. C’era soltanto un uomo in tuta blu che armeggiava all’interno del garage. Pa’ si avvicinò e gli espose la sua richiesta. L’uomo l’ascoltò perplesso ma infine si accordarono e rassegnato l’accontentò. Pa’ si diresse verso la banchina.
Quando in ufficio aveva messo la lettera di dimissioni sulla scrivania, lo avevano guardato alzando appena gli occhi sopra la montatura degli occhiali. Probabilmente dalla sua espressione si capì che era una cosa importante. La busta fu aperta e il contenuto dispiegato e letto. La reazione mal dissimulata.
“E adesso che cosa farai?”
“Adesso…? Farò il nocchiere!”
“E di che nave?!”
“Della mia balena.”
Pa’ sollevò il telo dalla prua della barca e vi salì. Lo ripiegò e liberò le cime. Lo sciabordio tra gli scafi e i canapi era un ritmo spezzato di tenui schiocchi. La ferramenta sugli alberi nudi, musica di sonagli. Il motore partì al primo colpo. Con manovra lenta e precisa, Pa’ uscì dal porto e mise la prua al largo.
Si era alzato il vento. Aveva nettato il cielo e steso un manto virgineo. La luce era sgargiante. L’acqua mossa, un fremere di bagliori saettanti. La piccola barca fendeva le onde impettita.
Quel fuscello investito dal sole e invisibile all’universo, conteneva il mondo intero per Pa’. Tutto ciò che era necessario era a bordo. Le zavorre stavano affondando nel lago.
Si sentiva leggero, libero, vivo. Si sentiva. Tutto era possibile adesso. Bastava scegliere. Poteva puntare a nord, a sud, la luna, una stella. In quel momento era Dio. Non della creazione ma di tutto ciò che gli apparteneva, se stesso. Di quello che gli era concesso conoscere ed esserne artefice. Così poco, eppure tutto. E sapendosi uomo, scelse la terra. La sua terra.
Una pioggia di luce scrosciava tutt’intorno. La linea dell’orizzonte tracciava decisa il cerchio imperfetto della semisfera celeste. Degli infiniti approdi plausibili uno solo era possibile e l’aspettava, redento, da sempre.
Avvicinandosi alla riva il tempo si fermò. Non per tutti, fu Pa’ che si dimenticò del tempo. O fu il tempo che si lasciò dimenticare. Esistevano un porto, una banchina e un cartellone pubblicitario seminascosto fra i tigli. Come spettatori soltanto il creato e la vita con i suoi imperscrutabili doni.
Pa’ sapeva che quello che ora vedeva sul cartellone era là soltanto per lui.
È quando ti dimentichi del tempo, è allora che sei felice.