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Dell'uomo che si fece mago

Non amava gli uomini. Non amava neppure se stesso. Trovò una casa abbandonata in fondo al bosco e là visse in solitudine. Nessuno lo conobbe più nel mondo che lasciò. Qualcuno lo incontrò che vagava fra gli alberi e le felci. Raccontarono che era vestito di foglie e che parlava da solo. Dissero che era un mago, o un elfo. Altri, dissero che era matto.
Negli anni solitari imparò un universo nuovo. Restava pomeriggi interi ad ascoltare la voce del bosco: un concerto in cui seppe riconoscere la melodia di ogni albero, il canto di ogni erba e fiore. Apprese il ritmo delle cavallette, la malinconia del calabrone. Intese gli assolo del cervo, i cori degli uccelli, l'armonia del vento, finché sentì fluire anche la propria musica.
Davanti alla sua casa era cresciuto un niveo ciliegio. Lo trovò una mattina, alto e fiorito. Rapito a ogni risveglio, trascurò che nelle stagioni a venire l'albero non mutò e mai fece un frutto. Vagando nei dintorni scoprì una cascata, bianca di spume, che precipitava esuberante, ma assolutamente silenziosa. Ancora, una sera al tramonto, vide un ampio arcobaleno solcare la valle. Gli sfuggì che più non scomparve, che ci fosse la pioggia o il sole. Il suo rifugio si arricchiva di meraviglie, quasi bastasse volgere l'attenzione per contemplarne di nuove. Avrebbe potuto dire di essere felice, se non fosse stato per la notte o l'ombra che a volte lo coglieva nella selva più fitta.
L’eterea presenza usciva dal tronco cavo di un albero o attraversava le pareti della casa. Aveva una voce dolcissima, come un suono d'armonium. Sorrideva. Volteggiava e una fiamma scendeva dai lunghi capelli a disegnarne il corpo di donna. Ardeva fino a raggiungere i piedi, sui quali la figura si posava e restava immobile a fissarlo supplicante. Quando poi lui muoveva una mano per toccarla, volava via in un turbine di risa echeggianti: "Sei solo, sei solo..."
Quella notte quasi non dormì. A lungo aveva udito le parole rimbalzare sui muri. Si alzò prestissimo, prese la bisaccia e s'incamminò costeggiando il prato. Si addentrò nel bosco. Frugava fra le erbe, scrutava foglie e frutti, interrogava l'aria e ogni tanto coglieva qualcosa. Tornò che il cielo straripava d'azzurro e l'alone di fuoco del sole bussava sulla cresta dei monti. Raggiunse il piccolo lago che un'ansa del ruscello formava uscendo sotto il cielo aperto e si accostò all'acqua versando il suo raccolto su una pietra della riva.
"Fermatevi e ascoltatemi, perché ora so il mio futuro. Voi, compagni della mia vita, mi avete rivelato segreti inauditi e insegnato come impiegarli per trasformare il mondo: la magia nelle erbe, il respiro dei venti, l’energia pulsante del sole. C'è un mistero però, l'unico del quale sono padrone, a cui non voglio rinunciare: io sono un uomo. Per questo vi chiedo di usare per un'ultima volta i vostri poteri, e questa volta tutti insieme. Poi li dimenticherò."
Cominciò a raccogliere ciò che aveva radunato e a posarlo sull'acqua.
"Per gli occhi il colore delle ghiande mature, due rose selvatiche per le labbra, di mora i suoi capelli lucenti e la pelle di muschio. Fili lunghi d'erba per le braccia e per le mani, di betulla il corpo, due ranuncoli i suoi seni. Tu, acqua di neve cristallina, della trasparenza più pura farai il suo cuore. Tu, vento scapigliato, volute di gioia metterai nella voce. E il sole, di luce limpida creerà i suoi pensieri. Io le dono il nome e, poiché niente potrà più portarla via, la chiamo Felicità."
Fu quando pronunciò il nome che il sole calò nello specchio d'acqua. La superficie s'increspò, s'inarcò. Una folata di vento volò ad acquietare le onde e rivelò la forma distesa. Lei si levò dall'acqua come fosse diventata cristallo. Gli si fermò di fronte, silenziosa, e lui sentì quello sguardo entrargli negli occhi, giù fino al cuore: era bellissima.
"Sei come ti ho vista ogni volta che ti ho immaginata, che ti ho chiamata, desiderata. A guardarti so il tuo profumo, il tuo sapore sulle mie labbra. Saprò le tue parole toccando la tua bocca. Leggerai la tua dolcezza sul mio viso. Sei l'incastro perfetto per il mio respiro. Ti conosco da sempre, solo non sapevo il tuo nome."
Lei non disse una parola. Lui sentì l'impulso di toccarla, ebbe un attimo di esitazione ma non seppe trattenersi. Espirò rassicurato quando le dita incontrarono il calore del viso. Le sfiorò piano la mano, poi la strinse, e lei lo seguì.
Si amarono. Era veleggiare su una nuvola, erano uccelli che s'inseguivano nella luce. Poi erano braccia che si cercavano, baci che si trovavano, pelle sotto le mani e mani sulla pelle. Erano carezze sul corpo di lei e quel corpo su di lui, nudo, sotto di lui, come un paesaggio riscaldato dal sole, percorso dal vento, dissetato dalla pioggia, e lui sole, vento, pioggia, che la scalda, la rincorre, la disseta di tutta la felicità che può, e quella felicità diventa sua, e viceversa, senza fine, negli occhi che tornano, un abisso, a guardarsi imploranti o forse timorosi di scoprire una gioia senza ritorno, e ci nuotano, ci navigano in quegli occhi come un mare segreto, dentro un cielo di sospiri, e voci, come fuochi d'artificio su di loro, di mille colori e parole, che diventano una, l'unica, che ha senso, che li raccoglie, che li comprende, li avvolge, li definisce: amore.
Si risvegliò. Gli parve da un sonno di secoli. La cercò con la mano, poi con lo sguardo, vicino e poi nella stanza: lei non c'era. Corse tutta la casa e uscì sul prato per indagarlo smanioso, ma lei non c'era. Un macigno gli rotolò dentro. Notò che era scomparso anche il ciliegio. Cercò la cascata, cercò l'arcobaleno, ma erano svaniti. Vacillando arrivò al ruscello e sulla sua sponda stramazzò.
"Mi avete tradito. Ho rinunciato alla magia per conoscere la vita e non mi avete lasciato più nulla. Vi siete ripresi i sogni, ma anche colei che avrei voluto per vivere."
Fra le lacrime rivide la figura trasparire sull'acqua. Strinse una manciata di sassi e li scagliò con violenza sull'immagine.
"Vattene! Non mi torturare più. Torna nei gorghi che ti hanno partorita e trascinaci per sempre anche me, perché più nulla vale sotto questo cielo, ora che giaccio spogliato nell’ineluttabilità della mia solitudine e non ho altro cui ambire se non alla follia."
"Non avvilirti così, il tuo pianto mi ferisce nell'anima, ma mai dovrà uccidere la speranza."
Udì la voce invaderlo con una cascata di tepore. Sollevò il capo e sulla riva opposta stava ritta lei, dentro una visione che ancora dimora nella sua memoria. Creatura dolce e selvaggia, incontro di tutti gli elementi, fusione di ogni verità: solo il suo cuore avrebbe potuto dire l'emozione, ma non c'erano parole. Abbigliata di un vestito a fiori bianchi, contemplava la sola donna che da sempre amava. Radiosa come se avesse assorbito lo splendore e i colori del paesaggio intorno, con negli occhi un riverbero di arcobaleno.
"Perché mi hai abbandonato così, lasciandomi con l'angoscia di averti perduta?"
"In verità solo ora io giungo in questo luogo. Attratta dalla bellezza della natura ho camminato a lungo nei boschi, finché la sete mi ha spinta al ruscello dove ho potuto bere. È qui che ho udito il tuo dolore e come una lancia mi ha penetrato. Vedendolo ora svanire sul tuo viso, così per me si è dissolto, e in futuro credo che soltanto la tua assenza potrà farmi altrettanto male. Vieni alla mia riva, attraversa questo confine trasparente e ti riporterò fra gli uomini. Seguimi e mi avrai vicino a ogni risveglio per salire insieme le strade del mondo."
Incapace di muovere le labbra, lui l'ascoltava, la fissava. Coi lunghi capelli di mora lucenti, la bocca di rosa e gli occhi scuri come ghiande mature. Esile sul suo corpo di betulla, gli tese le braccia lunghe e sottili come fili d'erba.
"Qual è il tuo nome, che certo suona dolce come una promessa? Il mio è Felicita."

Gennaio 1933
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