angiolina e la notte dei morti

Angiolina e la notte dei morti

“Uno, due, tre…”
Angiolina guardava con occhi assenti la sorellina che contava con le braccia appoggiate al muro della cappella e il viso che sbirciava di lato. Aveva sentito dire che c’era la possibilità di andare a lavorare in Svizzera. E la Svizzera non era lontana come l’America per la quale alcuni uomini erano partiti e nessuno era ancora tornato. Era appena dietro la montagna dove spuntava il sole e dietro a quell’altra dove spariva. Ma per lei era la stessa cosa.
Non era mai scesa più dei venticinque chilometri che distava la città dove al sabato c’era il mercato. Anche perché bisognava arrivarci a piedi e ci voleva un giorno intero per andare e tornare. Pochi potevano permettersi un calesse o la corriera e con la merce che si vendeva c’erano già tante cose da comprare.
Comunque doveva essere grande la Svizzera se da una parte parlavano l’italiano e dall’altra il tedesco.
“…otto, nove, dieci!” Era la quarta o la quinta volta che contava fino a dieci. Più in là per lei non c’era nulla.
“Angiola, dove sono andati?”
“Non te lo dico, così impari a spiare.”
La sorellina ebbe un attimo di esitazione, non sapendo se ribattere o ammutolirsi. Era piena di terra, sul viso, sul vestitino ricucito, sulle ginocchia, nere come le mani. Corse via in direzione del bosco.
Aveva sentito suo padre dire di avere incontrato un commerciante della valle e che era disposto a prenderla in casa come serva. Così avrebbe mangiato regolarmente, l’avrebbero vestita, si sarebbe sistemata. Per loro sarebbe stata una bocca in meno da sfamare. Potevano farcela anche senza di lei adesso che gli altri figli erano in grado di aiutare nei lavori della campagna.
Non le dispiaceva l’idea di non dover più andare nella stalla ogni mattina appena faceva giorno, di indossare il grembiulino bianco e vivere in una bella casa di tante stanze. Però là sarebbe stata sola, le sarebbero mancati le sue sorelle, gli spazi aperti e anche le capre. Forse era meglio andare a lavorare con Maria in quel grande albergo in Svizzera. Chissà se là parlavano italiano o tedesco?
Avrebbe voluto andare anche lei a nascondersi con i bambini e avere la possibilità di liberarsi nella partita che ormai doveva comunque giocare.
Dal fondo del prato comparve una piccola orda di mani e di gambe in movimento che si abbatté sul muro della cappella.
“Libera per tutti!”
“Lucia! Esci, abbiamo liberato tutti!”
Lucia arrivò piano piano, con il viso tirato dalla rabbia e un ginocchio spellato. I bambini le giravano intorno, ridendo.
“Tocca ancora a te stare sotto!”
“E’ colpa tua!” urlò Lucia e, presa una manciata di terra, la gettò contro Angiolina scoppiando a piangere. La madre, che aveva sentito gridare, si precipitò nel piccolo cortile chiedendo cosa fosse successo. E visto il ginocchio ferito di Lucia le lasciò cadere una sberla, la prese per una mano e la trascinò verso casa, mentre sul suo viso continuavano a scendere chiari rigagnoli di lacrime.
“Venite a casa che è ora!”
Abbracciandosi le ginocchia su cui appoggiava il mento, Angiolina sedeva davanti al dipinto dentro la piccola cappella. Sapeva che l’aveva fatta dipingere suo nonno quando il figlio maggiore, rimasto sepolto nel crollo di una galleria scavata per raccogliere la legna sotto una slavina, riuscì miracolosamente a salvarsi.

La luce proveniente dalle piccole finestre si affievolì sempre più, finché accesero una lampada a petrolio e l’appesero a una trave del soffitto. Dopo la cena stavano tutti seduti intorno al furnet, la grande stufa di sasso costruita in un angolo della stanza. Entrò il padre che andò anche lui a sedersi prendendo in braccio Lucia.
“Ci sono le stelle. Domani sarà bello e dopo la messa andremo tutti a prendere le foglie per le bisacche. Questa è una bella notte per i morti.”
Da sempre il giorno dei morti, in quell’appendice dell’estate che tornava a ogni inizio di novembre, usavano, se il tempo lo permetteva, andare a raccogliere le foglie secche di faggio. Sarebbero servite a confezionare i grandi sacchi di tela bianca che per un anno sarebbero stati i loro materassi. Bisognava andare lontano, scendere la valle e risalire dall’altro lato fino al luogo che appunto chiamavano “il posto dei faggi”. Poi riempire sacchi e gerli con le foglie più belle e trasportarli fino a casa.
E cominciò a raccontare.
“Una volta, in una notte come questa, una donna che passava davanti al cimitero vide l’ombra di un uomo avvicinarsi.
– Dove andate da sola a quest’ora? –
– Sono andata a trovare mia sorella al paese qui vicino, ma la vostra voce mi sembra di conoscerla, chi siete? –
– Non ha importanza chi sono. Tenete, questo è un regalo per voi. –
E detto questo scomparve come fosse volato via nel buio. La donna non poteva vedere cosa c’era nel fagotto ma presa dalla curiosità se lo portò a casa. Lungo la strada le sembrava di sentire dei rumori provenire dal fardello. Pensò che fosse un coniglio, o forse una gallina. Ma una volta arrivata a casa e acceso il lume aprì lo straccio – e dentro cosa c’era?! – ”
Nessuno fiatava. Ognuno si era chiuso nel proprio angolino cercando un contatto rassicurante, gli occhi tutti fissi sul viso del padre.
“ – Dentro c’era la testa del marito morto che cominciò a ridere e ridere senza più smettere! –
Qualcuno disse di averla sentita urlare quella notte ma non la vide mai più nessuno. Probabilmente aveva raggiunto il marito che si era ammazzato tanti anni prima e nessuno aveva mai saputo il perché.”
Il silenzio era assoluto. Non un’ombra si muoveva dentro la luce gialla.
“Su, andiamo a dormire” disse la madre. “Domani sarà una giornata dura.”
Salirono la scaletta di legno che portava al piano superiore e si calarono dentro i letti di foglie. I genitori nel proprio e i figli tutti insieme nell’altro dietro una tenda che serviva da divisorio.

Angiolina con gli occhi spalancati cercava un filo di luce che piovesse dal cielo attraverso la finestra, su cui stendere i propri pensieri. Ascoltava il padre russare. Lucia vicino a lei si agitava e parlava nel sonno.
“Libera per tutti i morti.”
Domani alla messa avrebbero incontrato quel commerciante e allora avrebbe dovuto dire che voleva andare a lavorare in Svizzera. Suo padre si sarebbe messo a gridare e lei pure, e tutto il paese avrebbe saputo che Angiolina andava via, che Angiolina aveva pianto. Forse avrebbe potuto dire subito le sue intenzioni, domani mattina, appena svegli. Ma nessuno a quell’età poteva ribellarsi alle decisioni della famiglia senza portarne il marchio per tutta la vita. E forse suo padre sarebbe stato ancora più inflessibile.
Di Venanzio non erano arrivate brutte notizie, quindi doveva essere ancora vivo. Un giorno avrebbe smesso di sparare agli austriaci e sarebbe tornato a casa. Ma non l’avrebbe trovata e forse non l’avrebbe neanche più cercata. Che bello che era Venanzio, con quel grande sorriso e i capelli neri.
“Piccola stella, un giorno ti sposerò” le aveva detto, e lei non lo aveva più dimenticato.
I suoi occhi si erano abituati al buio e lei si arrampicò sempre più su, lungo quel raggio più chiaro fino a trovarsi in cielo. Quindi si addormentò, come una piccola stella.
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